00 17/11/2009 18:55
Torno subito, forse - segue

Prima della fermata, il treno percorreva qualche centinaio di metri in galleria e cominciava la lunga frenata. Era come una stanza segreta dove ognuno era costretto a rifugiarsi e si ritrovava da solo a fare i conti con la propria parte incognita, quella che a volte, a tratti, si rivela a te stesso e ti terrorizza. I pensieri e le emozioni stampati sui muri e che sei obbligato a vedere, come se tu stesso li avessi scritti e disegnati per rammentarli ma ne fossi fuggito, ti aggrediscono con la forza della verità e ti feriscono più di quanto potrebbe una vita di menzogne.
Le pareti di pietra ingiallite dai neon rallentavano e la privazione del paesaggio lo colpiva più del paesaggio stesso, Luca fissava la prigione che sfuggiva e quasi si fermava e poteva leggerne le frasi d’amore e i disegni scabrosi incisi dagli operai che l’avevano costruita. Quando stava per stagnare e condannarlo per sempre a subire nevrosi e speranze di altri, spariva d’improvviso.
La galleria era il segnale quotidiano della fine di un viaggio, quello di Luca, ma sembrava la metafora della sua vita ch’era giunta a quel chilometro e s’era quasi fermata. Solo che nell’allegoria del viaggio la galleria finiva e il paesaggio riappariva, per poche centinaia di metri prima della stazione, e quel breve manifestarsi lo consolava.
Ma nella realtà il suo treno sembrava seppellito per sempre e il paesaggio, murato agli sguardi, che col tempo che pianifica e rende ragione di ogni effetto sarebbe apparso superfluo, lo avrebbe creduto una chimera che seppur conosciuta e aspirata in passato, quando la mente conosce e aspira perché giovane o ingenua o libera, si manifesta ora come un balocco.
Era triste Luca scendendo dal treno, perché la felicità che gli si era rivelata nel volto e nel corpo di Laura, nella corsa di sguardi che l’aveva sfinito volante sui campi, sulle spiagge, trasfigurato nella velocità dei colori cangianti dal blu sottomarino al carminio del sole urlante, era imprendibile. Proprio come un trastullo d’infanzia smarrito chissà dove, chissà quando, e il dove e il quando sono così lontani che disperi che siano persino esistiti. Ne rammenti, a volte, la forma, l’odore, le sensazioni del tatto ma non ricordi quale emozione, perché la memoria dei sensi è scolpita e i sentimenti sono invece fugaci. Perché la vita è fisica e non lascia memoria d’intenti.
Un sudario gli calò fino alle scarpe, tanto che incespicò e cadde sulla via che lo conduceva al suo ufficio e diede la colpa ai marciapiedi sconnessi mentre si rialzava e si specchiava, per un attimo, nella pozza di pioggia che sembrava una mattonella.
Raccolse le sue parti che s’erano scomposte e nella confusione dell’incidente non seppe sistemarle, tanto che il cervello si ritrovò al posto delle gambe, e quasi correndo passò dritto davanti al portone della scuola, fino al capolinea del bus che sembrava aspettarlo e che infatti partì subito dopo che Luca vi si era aggrappato.
Era la linea per le frazioni di campagna, a bordo c’erano tutte le maestre che raggiungevano le classi rurali e che restarono sorprese dalla presenza del segretario. Pensarono ad una ispezione ch’era sfuggita alla loro rete informativa e cominciarono a parlottare concordando velocemente i sistemi per coprire la collega che s’era assentata arbitrariamente e per scoprire altre eventuali questioni che fossero giunte alle orecchie della direzione. Poi due di loro gli si avvicinarono e con modi vagamente seducenti provarono a farlo parlare. Ma fu inutile, perché Luca non vedeva e non sentiva niente e solo grazie all’automatismo dell’educazione rispondeva ai saluti.
Quando, dopo mezz’ora, l’autobus si fermò in prossimità di una grande quercia con accanto una fontanella, Luca pensò di scendere perché il luogo gli piaceva, una maestra lo seguì perché era la sua fermata e lo afferrò per il braccio prima che lui si avviasse.
- Allora, è da me che viene! – gli disse accompagnandolo per qualche passo.
Ma la scuola non era nella direzione che aveva scelto Luca, era dalla parte opposta, allocata in un edificio fatiscente col tetto di lamiera. La maestra sapeva che il segretario non c’era mai stato e allora lo prese e lo condusse giù per il viottolo fino all’uscio, dove c’erano già tutti e nove gli alunni delle quattro classi e due capre che aspettavano.
- Bambini, questo è il segretario della scuola. – disse la maestra.
- Buongiorno segretario. – gridarono i bambini in coro, e a loro si aggiunse il belato delle capre che si allarmavano ad ogni voce.
Luca si guardò intorno e il paesaggio gli piacque, c’erano poche case, orti e recinti e un bosco in lontananza, guardò la maestra e finalmente la vide, rientrò in sé arrossendo e sperando vivamente che lei non avesse percepito il suo smarrimento.
Entrarono nell’aula ch’era umida e i bambini aprirono le imposte, attaccarono la stufa e spinsero fuori le capre che s’erano intrufolate. Ognuno di loro portò la sua sedia per offrirla a Luca.
- Io mi chiamo Luisa, – disse la maestra – ci siamo conosciuti in una riunione ma forse non ti ricordi di me.
- No, scusa, siete così tante.
- E viaggiamo pure insieme, prendiamo lo stesso treno.
- Davvero?
- Tu stai sempre insieme a due mie colleghe, Laura e Loredana.
- Ah, sì! – Luca vagava con lo sguardo e cominciava ad ambientarsi, vedeva i bambini che li scrutavano e coglievano ogni parola del dialogo, quasi in silenzio se non fosse stato per i due che si litigavano il posto vicino all’unica bambina.
- Ecco, vedi, – disse Luisa – in direzione sarà arrivata la voce che due bambini, due gemelli, che non hanno ancora l’età scolare, vengono accolti in quest’aula, ma ti giuro che sono due bambini intelligenti, sarebbe un peccato non istruirli, sono già più bravi di alcuni dei loro compagni che sono in classi superiori. Qui la lezione è unica per tutte e quattro le classi e loro, i “Rositi”, sanno già la tabellina del nove e la storia dell’antica Roma.
I “Rositi” erano in prima fila e sull’attenti, Luisa, indicandoli, gli spiegò ch’erano chiamati così per via dei capelli che ricordavano il colore di un fungo molto comune in quelle montagne e li chiamò, come se fossero uno solo, alla cattedra.
- Lino, dimmi la tabellina del nove. – e quello gliela propinò senza errori.
- E tu, – si rivolse all’altro – chi fu il primo re di Roma?
- Romolo! Ch’era fratello di Remo e hanno fatto il solco con l’aratro tirato dai buoi.
- E chi di voi mi sa dire il passato remoto del verbo essere?
- Io fui, tu fosti, egli fu… – risposero facendo a gara a chi finiva prima.
- Bravi, bravi. Andate a posto. – disse Luisa orgogliosa. – Vedi, – continuò rivolta a Luca – come si può lasciarli a casa?
- Certo, non è giusto. Ma io non sono qui per questo.
- No? E per cosa, allora? Qui non ci sono altri problemi. – lo guardò aspettando una risposta ma Luca non sapeva cosa dire, in quel momento cercava di elaborare una giustificazione credibile.
- Forse, – continuò Luisa – per la bidella che è ammalata da dieci giorni. Ma vengono le sue figlie a fare la pulizia! Vedi? E’ tutto pulito.
- Ma la scuola non è come una famiglia, se la bidella si ammala si manda una supplente.
Luca si aggrappò a quell’alibi e lo fece diventare il motivo della sua visita.
- Una supplente? Ma chi ti viene in questa montagna?
- Qualcuno che ha bisogno di lavorare.
- Ma qui siamo davvero come una famiglia. Aspetta che si facciano le dieci e vedrai.
Luca lasciò Luisa alle sue lezioni e uscì a passeggiare nella campagna circostante, doveva aspettare il pullman di ritorno che sarebbe passato alle dodici e trenta. Intanto non sapeva come fare per avvisare la direzione della sua assenza, l’unico telefono pubblico, gli dissero, era nella bottega di generi alimentari, su, al paese distante un paio di chilometri. Nessuno sapeva chi fosse, altrimenti gli avrebbero offerto la disponibilità del loro telefono di casa, ma Luca era lì per caso, senza che nemmeno lui sapesse perché e cercava di essere invisibile per non disturbare.
Non altrettanto invisibile era la pena che lo aveva aggredito e s’era impossessata del suo volto stravolgendone i lineamenti; ne percorreva la fisionomia dal mento alla fronte come un’onda sismica che produca fratture e rilievi nei campi. Sembrava sofferente per un dolore fisico e dondolava perdendo a volte l’equilibrio.
Era la sua coscienza adulta che faceva a pugni col bambino rintanato chissà da quanto, che s’era affacciato al tepore di un sole pigro e l’aveva trovata guardiana.
Non tana, si rivelava il rifugio, ma prigione fosca allestita per avvilire il diletto, ché mai potesse, la gioia, tramare insidie men che virtuali alla stabilità del tempio, eretto in memoria di un culto effimero che abbisogna di simboli autorevoli.
Il matrimonio e la famiglia pendevano dai chiodi come il crocefisso sulle pareti della coscienza. La sua più antica educazione gl’imponeva di venerarli, e offenderli, anche solo col pensiero, gli procurava un dolore troppo grande.
Ma il paesaggio, fuori delle mura dell’ufficio, era così nuovo e bello che persino l’idea della trasgressione, di cui avrebbe dovuto render conto l’indomani, sembrava giustificato da quel po’ di conforto che gli arrecava.
Cosa mai era quella pena, se non il disagio di un conflitto fra la condizione iniqua e l’anelito di riscatto?
Luca lo sapeva perché altre volte l’aveva provata, era la stessa pena che procura una malattia, lo stesso spossamento causato da un accesso di febbre, doveva solo curarsi e sarebbe guarito. Ma per la prima volta credeva che i ruoli fossero stati invertiti da un ammaestramento beffardo; ciò che appariva malanno era invece brama di benessere ch’era opportuno reprimere.
Coi modi consueti, la confessione, la penitenza, l’espiazione, per poi tornare a nutrirsi d’ipocrisia, di volgarità, di arroganza fino a quando il virus della felicità non l’avesse colpito ancora.
Un vaccino, ecco cosa gli serviva. Ma non lo erano, forse, i figli che arrivano a cementare le coppie e inibire gli istinti? Luca ne aveva accolti tre ma la sua salute non ne aveva trovato giovamento, piuttosto il desiderio di evasione si era moltiplicato.
Al pensiero dei bambini corrispose un nodo alla gola.
- “Eccolo,” – pensò Luca, – “ecco un altro nodo scorsoio che mi tiene appeso alla mia mediocrità.” – come se i figli fossero stati le catene che lo tenevano legato a Letizia e gl’impedivano di rivolgere la sua attenzione verso un’altra donna che potesse amarlo davvero.
Poi girò lo sguardo verso la valle che diradava con curve morbide fino al piano e si sbiadiva liquida nella marina, pensò di berne come se fosse una panacea e cominciò dagli orti più vicini, dagli ovili, i pollai, le terrazze coi vigneti che si tuffavano nel dirupo, gli uliveti che rubavano un po’ di cielo e lo mischiavano coi pascoli e coi rovi che recintavano il bosco. Bevve fin dove riusciva a vedere, fino alla striscia di città che sembrava una ditata di gesso sulla lavagna, fino al graffito che avanzava disegnando il confine col mare.
Era il diretto delle dieci, Luca sentì il vociare degli alunni che si riversavano nella piazzetta di fronte alla scuola, arrivarono di corsa e lo presero due da una mano e due dall’altra tirandolo fino alle panche. Lì alcune mamme avevano apparecchiato per la colazione, Luisa lo presentò e loro, dopo i convenevoli di rito, gli confezionarono una pagnotta che sembrava un pranzo completo. Il nonno dei “Rositi” colse l’occasione per stappare una delle sue bottiglie di vino e deliziò la compagnia coi detti antichi e le filastrocche finché sua moglie non lo mandò a radunare le capre che si erano disperse.
Luisa guardava Luca e rideva, lo vedeva divertito e confuso per quella accoglienza che non si sarebbe aspettato.
- Non è meglio del tuo ufficio qui?
- Ah, non c’è paragone, facciamo a cambio? Vai tu, domani, a dirigere la segreteria e io vengo qui a fare il maestro?
- No, nemmeno per sogno.
- No, segretario, – intervenne una delle mamme. – la maestra Luisa lasciatecela qui. Voi, invece, perché non trasferite la segreteria, così questa bella giovane la vedete tutti i giorni?
- Volentieri, se il direttore è d’accordo… qui il paesaggio è più bello.
- Eeeh, il paesaggio.
- Segretario, perché non ve la sposate la maestra Luisa? – disse uno dei bambini, il quale aveva colto al volo l’allusione. E a quella frase tutti i suoi compagni, tranne uno, presero a battere le mani sul ritmo di: - Si sposano, si sposano -.
Uno, infatti, s’era rattristato e si abbracciò a Luisa, tanto che lei dovette consolarlo.
- Non è vero, – lo tranquillizzò. – non ci sposiamo.
- Che tragedia, – sussurrò Luca all’orecchio di Luisa. – ora questo mi odia.
Quando la mattina finì, Luca e Luisa scelsero due posti vicini sul pullman e poi viaggiarono insieme anche sul treno. Lei pensava che era un bell’uomo e che non le sarebbe dispiaciuto farsi corteggiare, lui tramava un diversivo per non pensare a Laura, e giurò a se stesso che non le avrebbe mai parlato di poesia.

continua