Un sorriso
Sembra un “venerdì santo” questa giornata inutile della mia vita, e la strada il “viale del tramonto” in una mezza sera di novembre, coi platani arrugginiti dalle foglie morte che planano come i passeri sui solchi.
Il sole suicida mi ha lasciato un rimpianto atroce per non averne saputo cogliere il calore e la luce brevissimi, e m’illude che domani sarà altrettanto caldo e luminoso, forse non per me, ma il rimorso dell’egoismo, impiantato nei miei geni come un peccato inespiabile, mi tortura tuttora.
Sono solo, terribilmente solo in balia della consapevolezza, strattonato e respinto tra lo stolido che vorrebbe nutrirsi ancora di vita aspettando il domani e il saggio che invoca l’incidente che tarda, anno dopo anno, ma che sarà certo e sorprendente come un fulmine ad agosto.
Stanco, stanco e solo, sicuro di non servire al fantomatico progetto universale e nemmeno funzionale al disegno più banale e organico dell’umanità. Asociale e svincolato dall’ingranaggio perverso della convivenza, stanco, stanco e codardo, abile ad eludere le insidie fisiche per accogliere quelle virtuali ch’esaltano la fantasia ma proteggono il corpo.
Anch’esso sfrondato da volontà maldestra, imploso nell’abbigliamento sciatto precipita sui viscidi scalini di Narciso, giù fino allo stagno, nello specchio mendace della gioventù che si frantuma all’impatto e si scheggia in mille pugnali. Stasera li colgo tutti nel cuore.
E mi dissanguo, senza nemmeno più la speranza fatua del domani, né la gioia rabbiosa di Eros dispersa in decenni di routine, senza il conforto dell’ignoranza che mi sproni alla conoscenza, né lo stimolo delle perversioni, né il coraggio suicida, né la fame o la sete che m’inducano al desco. Un deserto, un deserto che non può aver fine né memoria d’inizio. Sono solo.
Il rosso è solo una luce tangente che infiamma gli atomi, li priva della falsità dell’azzurro e poi li spegne lentamente, il buio è una luce diretta d’intensità illimitata ad altissima frequenza, ma sfugge ai miei sensi primitivi, come l’amore ch’è dentro me, enormemente grande, tanto più vasto della mia pelle ed anche delle mie necessità, eppure lo percepisco. Sembra un retaggio di avi perfetti, quasi divini, tramandato per errore o per essere custodito nella dimensione umana umiliante, ed io me ne sento scrigno, non già ignaro ma indegno e inadeguato corriere mentre percorro questo viale ossidato. Oh ma il suo peso, il suo peso è insopportabile!
Gli alberi mi parlano con frasi mormorate che non hanno un senso compiuto, implorano la mia comprensione o almeno un’intesa per innescare un dialogo. Sono soli quanto me e immobili, ma partecipi alla notte, al vento, alla pioggia, io non ho nemmeno la consolazione della natura e ne cerco riparo. Fuggo senza ascoltarli per non cedere al bisogno puerile, che mi tallona, di perdermi nei boschi per credermi pianta.
Quand’ero un bimbo, sbirciavo curioso dalle feritoie della torre merlata eretta a mia difesa e sognavo di evadere sorvolando il fosso stracolmo popolato di mostri. Sgusciavo dalle fessure fingendomi aria, precipitavo negli scoli delle grondaie tramutandomi in molecola d’acqua, evaporavo dai comignoli insieme al carbonio.
Mi rinchiudevo nell’armadio per eludere la vigilanza cosciente dei carcerieri e dalla prigione angusta ascoltavo i loro richiami allarmati, l’assurda paura di avermi perso, il timore infondato che il pargolo Icaro vestisse precocemente le ali, quelle vere.
Fui costretto a costruirmene un paio e mi schiantai sulla pietraia ed ora son qui, reduce da un volo fallito, rimesso insieme con la fantasia.
Se il mondo fosse vero ingannerei il mio carico di sapienza e accoglierei la notte imminente con serenità umana, invece devo pigiare sui grappoli di solitudine e berne il vino aspro nei calici impropri che sono i miei palmi, e spando la tristezza sul selciato senza potermi ubriacare.
Lei è così bruna e silente da sembrare un disegno, la guardo muoversi e mi appare graziosa come le foglie esili appena schiuse. La brezza elettrica la penetra e si disperde al suolo dove i miei passi vibrano e le foglie morte fremono fulminate dalla nostra scintilla.
Se il mondo fosse vero lei sarebbe una donna, ma i suoi occhi recintati di nero sono profondi quanto il mio lungo volo tentato con ali fittizie.
Immerso nella sua acqua mi avvicino per sentirla e galleggio nella corrente tiepida, talmente piacevole da negare i traguardi. Mi accoglie in un suo stato immobile dove il tempo non conosce più lo spazio né le nostre età, il suo viso si apre lento annegandomi di luce, e la sua luce cancella il mio dolore che sembrava scolpito, lo modella come se fosse argilla sul mio tronco rassegnato al tramonto.
O è forse un’alba questo bellissimo mondo che si ripete, mentre il suo volto si apre ancora in un gioco allettante e m’invade, mi circonda, mi accarezza, si unisce al mio bagaglio d’amore che ora è più grave, ed io scrigno più lieve e leggiadro, innocente, bambino. Un’alba radiosa di luce tangente fra i rami in letargo, è il suo sguardo che sorge, che sorge, e mi guarda.
Ora son pronto all’incontro fatale, l’aspetto e lo temo con ansia infantile, vorrei girarmi e fuggire ma non saprei dove andare se non nei suoi occhi, devo trovarmi con lei adesso e farmi riconoscere.
Eccomi! Anch’io come te solo e perduto nella galassia, vado verso il tramonto e per crederlo un’alba t’invento, ma per crederti vera devo amarti oltre i confini del mondo, nella fantasia infinita dei nostri piccoli giorni sottratti al gran dolore degli uomini.
Eccomi grande come il sole mentre sbocci al mio amore.
Tutto questo le dico in silenzio e mentre già sto passando lei, che m’ha inteso, mi regala un sorriso.